Raccontare il travagliato corso del sistema scolastico pubblico italiano è un’impresa titanica, che Maria Chiara Acciarini e Alba Sasso, le due autrici di questo piccolo volume, decidono di intraprendere con spirito battagliero e pugnace.
Già insegnanti entrambe, e da anni attivamente impegnate in politica, schierate in prima linea sui temi dell’istruzione e del diritto allo studio, in questo libro uscito con Edizioni Gruppo Abele sentono il bisogno di affermare a gran voce il diritto di tutti i bambini e ragazzi a una scuola aperta, unitaria, capace di combattere le disuguaglianze, sostenuta da consoni investimenti e che riservi il giusto riconoscimento al corpo dei docenti, spesso sottostimato e raramente gratificato.
Venti anni di “riforme-contro”
Acciarini e Sassi si soffermano sulle riforme che nel corso degli ultimi decenni hanno maggiormente colpito e indebolito il sistema scolastico italiano, scatenando feroci proteste di piazza, come accadde con i pesanti tagli inferti nel 2008 dalla ministra Gelmini durante il governo di Berlusconi, impegnato a perseguire un modello aziendale di scuola: «Otto miliardi e mezzo in tre anni sottratti alla scuola, quasi un miliardo e mezzo all’università. La più grande rapina a danno dei destini delle giovani generazioni e di migliaia di docenti, esclusi o espulsi dal sistema scuola».
E come si ripetè con la “buona scuola” di Renzi nel 2015, che introdusse l’alternanza scuola-lavoro e si spinse a favore di un modello di scuola gerarchizzato, all’apice del quale ricadeva la figura del “preside manager”, nelle cui sole mani era affidata la chiamata diretta degli insegnanti: «Con quella decisione i docenti non sarebbero stati più dipendenti pubblici che rispondono alle finalità generali del sistema scuola, ma dipendenti di chi li assume e che rispondono a chi li assume».
Da Renzi a Gentiloni, da Giannini a Fedeli, per arrivare a Bussetti (il volume si conclude cronologicamente con l’esperienza del governo giallo-verde, che sappiamo essere stata sostituita dalla nuova formazione giallo-rossa), la continua alternanza politica degli ultimi anni, con i frequenti avvicendamenti di ministri e cambi di casacche di certo non ha remato a favore di una coesione e stabilità di visione del mondo scolastico.
Siamo lontani dal periodo delle grandi spinte riformatrici di ispirazione democratica dei primi anni Sessanta (legge n. 1859 del 1962), quando si lavorò collegialmente per elevare l’obbligo scolastico, ci si dedicò all’innalzamento della cultura di base, si portò avanti una politica concreta a favore della scuola di massa. E siamo anche lontani dal terremoto del Sessantotto, che vide la nascita dell’associazionismo, del sindacalismo, e che sbloccò l’ascensore sociale, grazie al quale anche figli delle classi operaie, anche figli di famiglie umili, arrivarono finalmente a raggiungere i livelli più alti di istruzione. Gli anni Settanta furono fecondi di pensieri e buone soluzioni, perché tutti pensavano che la formazione scolastica fosse preziosa, che dovesse essere più estesa, che occorressero più diplomati e più laureati, anche per fronteggiare una fase di forte sviluppo tecnologico.
E poi sono arrivati gli anni Ottanta, con l’acuto conflitto tra area cattolica e comunista/socialista, tra una idea della scuola più orientata alla formazione di lavoratori e un’altra volta alla creazione del cittadino, persona culturalmente preparata ad affrontare le sfide della vita. E ancora gli anni Novanta e Duemila, carichi di contraddizioni, con voci contrastanti e interessi di parte, con tentativi di aprire spazio al privato, cedendo ad esso risorse, e una volontà di gerarchizzare il sistema.
Un Paese con un marcato deficit culturale e di istruzione
Dalle occorrenze storiche, all’esame del funzionamento del percorso scolastico, all’analisi dell’evoluzione socio-demografica degli studenti italiani, quello che fa riflettere e rammaricare principalmente sono la dispersione scolastica, l’analfabetismo funzionale e i deficit e le carenze registrate rispetto ad altri Paesi europei avanzati:
«Solo il 24% delle bambine e dei bambini 0-3 anni è inserito in una struttura educativa contro il 35% della media Ocse»
«In Italia la percentuale di adulti, in età compresa tra i 25 e i 64 anni di età, che possiedono un titolo di studio inferiore a quello del II ciclo, è del 39%. Rappresenta quasi il doppio di quella media dei Paesi dell’Ocse (22%) e dell’Unione europea (20%).
«Nel 2017 solo il 20% degli uomini e il 34% delle donne aveva raggiunto una laurea, un numero assai inferiore alla media dei Paesi dell’area Ocse che era del 38% per gli uomini e del 50% per le donne».
Altro dato allarmante e che sigilla la staticità culturale del nostro Paese alle soglie del 2020: «La probabilità di conseguire una laurea è decisamente più alta per coloro che hanno i genitori con un titolo di studio di pari livello». Ancora il perpetrarsi di diseguaglianze e l’accesso a opportunità differenti per classi sociali diverse.
Di particolare interesse le pagine che prendono in esame il Rapporto ISTAT sulla conoscenza 2018, sottolineando il basso livello generale di istruzione e competenze della popolazione italiana, che comprende la categoria degli imprenditori. Questo deficit è tanto più preoccupante se si guarda alla rivoluzione digitale in atto e alle epocali trasformazioni che ci attendono, anche in ambito professionale. Le nuove competenze ricercate saranno tecnologiche, da un lato, e di trasformazione organizzativa e culturale dall’altro, e dunque sarà decisivo farsi trovare pronti, e alla scuola spetterà sempre, e forse ancora di più, il compito di fornire quell’istruzione di base che permette di rientrare più volte in formazione lungo tutto l’arco della vita e di essere in grado di vivere meglio il tempo non occupato dal lavoro.
Nella conclusione le autrici sottolineano la necessità di ripensare la scuola come risorsa per tutti, in grado di fornire coscienza critica e capacità di orientarsi nel mondo, flessibilità e apertura mentale necessarie per rimettersi in discussione, evitare la marginalizzazione: «L’istruzione non è un costo, ma un investimento di tutto il Paese su se stesso, la leva più importante per tornare a crescere. Oggi c’è bisogno di più scuola, di più sapere per tutte e tutti. Per navigare e non naufragare in solitudine nel mare di informazioni a cui ognuna e ognuno può accedere».