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Irene Penazzi racconta la sua infanzia attraverso due rigogliosi silent book

Impara ad illustrare e creare fiabe e racconti per bambini. [ADV]

Ti trovi a chiacchierare con Irene Penazzi, le chiedi di raccontarti da dove nascono le sue storie e lei, con un tono di voce leggero e soave ti conduce delicatamente fino alla sua infanzia, che in realtà è anche un po’ la tua, e forse quella di ognuno di noi che, almeno una volta nella vita, abbiamo vissuto qualcuna delle avventure dei tre protagonisti dei suoi lussureggianti silent book: “Nel mio giardino il mondo” e “Su e giù per le montagne” (Terre di Mezzo Editore).

Irene Penazzi

Irene, il giardino di cui parli nel tuo primo libro lo frequenti ancora oggi?

«Sì, la casa e il giardino di cui racconto in “Nel mio giardino il mondo” sono quelli dove vivo tutt’ora, a Lugo di Romagna, costruiti 30 anni fa. Nel libro ho scavato nella memoria, guardando foto raffiguranti me e i miei fratelli da piccoli, ho cercato di re-immaginare il giardino come era quando ero piccola, 20 anni fa, e rivivere quei momenti spensierati di noi bambini».

Facciamo un passo indietro, come nasce questo tuo albo illustrato pieno di colori, azioni, sensazioni?

«Il progetto nasce per la mia tesi di laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove nel 2015 mi sono laureata in Illustrazione per l’editoria. Il progetto prevedeva la realizzazione di un albo illustrato che fosse interamente creato da me. Quando mi sono trovata a scegliere cosa volevo raccontare, sono andata a scavare dentro di me e a cercare la risposta nei miei ricordi. Mi sono così riferita alla mia esperienza e alla mia infanzia, che erano molto legate a un luogo a me particolarmente caro, che ha plasmato la mia personalità, formazione ed educazione: il giardino di casa».

tavola tratta da Nel mio giardino il mondo

Come era questo tuo caro giardino, ce lo racconti?

«C’erano molti più alberi rispetto a oggi, alcuni giochi come le altalene, un piccolo stagno, un ponticello che aveva costruito mio padre, la voliera, il pollaio e i piccioni. Mio fratello è sempre stato appassionato di animali oltre che di piante e curava uccellini, pappagallini, colombe, porcellini d’india, ma anche furetti, che non sono finiti in questo libro. Andando a riordinare tante di queste memorie, sono arrivata anche ai giochi che facevamo durante le feste all’aperto, come la caccia al tesoro, le esplorazioni, laboratori di diverse attività. Nel libro mi riferisco a una festa in particolare che idealmente è quella del mio compleanno, rigorosamente in giardino, visto che sono nata alla fine di maggio. Il giardino infine era anche un posto dove allestire un rifugio nel quale idealmente andare a vivere rimanendo in realtà dentro casa».

Naturale proseguimento del primo silent book è “Su e giù per le montagne”

«Cercando sempre nei ricordi della mia infanzia, un altro momento importante era il periodo delle vacanze, che passavamo tra mare e montagna. Andando a definire gli scenari insieme a Davide Calì e all’editore francese che per primo ha pubblicato il libro, mi sono trovata molto bene a raccontare la montagna, vista come una passeggiata. Quindi, mentre il giardino era rappresentato come un luogo statico, la montagna è dinamica: racconto un percorso nel quale inquadro più ambienti diversi, che sono legati tra loro attraverso il passaggio degli stessi tre protagonisti del primo libro, a cui si aggiunge il cane che li accompagna. Come nel primo libro, anche qui la struttura e la storia hanno un andamento che segue il ritmo delle stagioni. Un’altra assonanza con il primo libro si ha nella mappa presente a inizio e fine volume».

Su e giù per le montagne

Da dove deriva la scelta di due, peraltro appassionanti, albi senza parole?

«Mentre realizzavo i libri, usando matite colorate e acquerelli, automaticamente mi sono trovata a non aver bisogno di parole; i disegni stessi sembrano avere suoni, rumori, fruscii che parlano da sé. Mi sono inoltre sempre piaciuti i libri di grande formato con personaggi che si muovono tra le pagine raccontando una loro storia, che in realtà non è una sola, ma tante narrazioni piccole o grandi da raccontare in tanti modi possibili. Ogni lettore, osservando le pagine del libro, può scegliere quali nomi dare a persone, animali e piante, inventarne di particolari, riprodurre i suoni che vuole».

Come consigli di approcciarsi a un silent book?  

«Non so se la mia formula può essere valida per tutte le tipologie di libro senza parole. Io personalmente per albi come questi due, per prima cosa descriverei quello che vedo partirei quindi dall’osservazione senza l’input che può essere dato dalla frase scritta. Si tratta di educazione allo sguardo, aiutata dalla presenza di animali ed elementi che si ripetono, come la palla rossa: ritrovandoli in diverse pagine li si può seguire, tornare indietro se non li si aveva visti prima, dare un senso alla loro funzione e piano piano unirli con il contesto e con gli altri elementi. Si tratta in questo caso di concentrarsi su un particolare per poi allargare lo sguardo sul resto. Con la formula senza parole, il libro è sempre un racconto nuovo, ogni volta che lo si legge è diverso. Possiamo anche scegliere un approccio con una lettura a domande, ossia chiedere al bambino cosa vede e far parlare lui, sostare a ogni pagina e lasciare che sia lui a raccontare cosa vede ponendosi interrogativi e magari cercando egli stesso di dare risposte».

la mappa di Su e giù per le montagne

In ultimo, Irene, progetti per il futuro?

«Passerò i prossimi tre mesi in Francia, in Provenza per la precisione. Sono infatti stata selezionata per una residenza di artista attraverso il bando di un’associazione culturale. Sono molto contenta, si tratta di un progetto su memorie famigliari per il quale ho ripreso in mano un graphic novel a cui avevo iniziato a lavorare all’università, un tipo di realizzazione diversa rispetto agli albi. Racconterò la storia dei miei nonni. Il mercato della letteratura per ragazzi è molto valorizzato e fiorente in Francia ed è valorizzato molto il valore di chi produce. A differenza dell’Italia, in Francia il nostro è più considerato come un lavoro vero e proprio».

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